"La prima idea del Wise Project è nata da un osservatorio privato: tra la cucina e il bagno della casa di mio padre, classe 1932, ex dirigente pubblico, nato in un paesino del maceratese e vissuto tra la Toscana e le Marche, in quella bella Italia all'incrocio tra gli Etruschi e i Piceni, terra di colline verdi e modelli sociali discretamente avanzati. Lui ora vive a Firenze, dove ha concluso la sua carriera una quindicina di anni fa. Uomo onesto e sobrio, ha nutrito la sua cultura con passioni cresciute nel tempo, dalla storia alla geografia, dalla pittura alle arti minori, senza mai veramente staccare lo sguardo dal campo a cui ha dedicato cinquant'anni della sua vita: la politica. Mio padre non è mai appartenuto a un partito, ma all'idea che la società possa essere amministrata con responsabilità e coscienza, in maniera razionalmoderata come si pregiava di dirmi durante i miei anni ribelli, mandandomi regolarmente in escandescenze (dato che ai tempi sostenevo a spada tratta la teoria se non la pratica dell'eccesso). Negli ultimi dieci anni, ormai solo, si è confortato con l'amicizia un po' sui generis dell'unico nipote, da cui lo dividono più di sessant'anni e a cui lo uniscono giorni e giorni di giochi a quattro mani. Tra questi il più diffuso in età prescolare era una sorta di teatrino improvvisato con pupi vari, dai Barbapapà alle Barbamamme, con supereroi in plastica e bambolette di gomma, il più stravagante dei quali era un motociclista senza più moto, che il bambino reclamava, assieme al nonno regista e deus ex machina, ogni volta dovesse fare la cacca. Il Giovanni Antinori infatti aveva battezzato i pupi con i nomi che a lui erano più vicini e quindi non con quelli dei protagonisti della Marvel o della Disney, ma di quegli scenari che avevano costituito la sua quotidianità e che ora presentava con naturalezza al nipote, che con altrettanta naturalezza strillava da una stanza all'altra: “Nonno nonno vieni mi scappa la cacca porta il Berlusconi!” La frase siglava l'inizio di un'evacuazione, sostenuta e motivata da una nuova avventura di quello che per il bambino, e con un'intuizione degna della migliore creatività pop, era l'ultima incarnazione dello smargiasso, incrocio tra Capitan Fracassa e Pantalone nella miglior tradizione della commedia dell'arte. E se la fantapolitica accompagnava la prima infanzia di nostro nipote regolamentandone le funzioni vitali con l'efficacia dell'olio di ricino di un tempo, nella mia testa cominciava a germinare la questione dell'enorme solitudine che a vari livelli deve serpeggiare in coloro che alla politica hanno creduto, che hanno creduto all'Italia e all'Europa, pensando che potessero costituire l'antidoto alla guerra in cui erano cresciuti. Da lì a immaginare un confronto su questi temi a livello europeo e transgenerazionale il passo è stato breve. L'idea di un laboratorio di idee e di pensieri per la ricostruzione di una sorta di discorso politico dalle ultime generazioni del Novecento a quelle degli anni zero è cresciuta con l'apporto di metodi e tecniche mutuati alle arti performative e alle scienze umane e ha prodotto infine i dodici capitoli di quello che abbiamo voluto chiamare Bildungsroman, romanzo di formazione, in riferimento all'idea di evoluzione implicita al concetto di insegnamento. La drammaturgia che ne è scaturita è modulare e si presta a essere fruita con contestualizzazioni più o meno rigide, sia come esempio di teatro testimoniale che come teatro forum o anche con approcci più tradizionali. Tuttavia la sua costruzione in dodici tappe allude all'ideale progressione della coscienza di un cittadino europeo verso la consapevolezza delle caratteristiche e dei limiti che questa appartenenza comporta. I singoli capitoli diventano dunque altrettante parabole che intendono raccontare diversi stadi di adesione all'idea di politica: i primi descrivono l'impegno come reazione ai traumi della Storia, quelli centrali delineano l'idea di politica come progetto, quelli finali tendono a presentare la partecipazione come forma di ricerca etica ed esistenziale. Analogamente il disegno generale ci ha indotto a privilegiare il ricorso a forme variate, che scaturissero dalla natura stessa delle testimonianze raccolte, e che a volte hanno spinto la scrittura verso la comicità surreale (Capitolo I), il grottesco televisivo (Capitolo II), l'emotività del melodramma (Capitolo IV), la compattezza narrativa del monologo (Capitolo VIII), il rigore di un dialogo platonico (Capitolo IX) o il procedere rapsodico di un coro interiore (Capitolo XI). Il tutto nella libertà di tradurre in gioco scenico (prima in parole e poi in azioni) quello che per i nostri padri è stata convinzione, passione o utopia, nella speranza e anzi nella convinzione che l'utopia non sia categoria da inscrivere all'impossibilità come si tende a propagandare oggi, ma proprio come ha formulato qualche bella mente del Novecento, a quella del non ancora."
Sonia Antinori – Direttore Artistico Wise Project